Giocate, ragazzi! – dal blog di Sabrina Minetti

 

Io e Fede siamo venuti a stare per qualche giorno nella vecchia casa dei miei nonni. Fede deve partecipare a un concorso per un posto da ricercatore all’Università di Trento. Avrei potuto esserci io, in lizza. Se non altro perché io qui in Trentino ho le mie radici. Siamo entrambi borsisti al Politecnico di Milano. Ma è toccata a lui la fortuna di potersi candidare. Se vogliamo chiamare fortuna il meccanismo perverso ma consueto delle candidature ai posti di insegnante universitario. Non posso dire di non aver provato un sottile senso di ingiustizia, quando ho saputo che il Prof. aveva scelto lui per partecipare al concorso. Ma Fede è un mio amico. Non è a lui che porto rancore. Semmai posso avercela con la cronica precarietà cui è costretto chiunque, nel nostro paese, lavori in campo culturale. Così gli ho proposto di fare base qui. Poi ho pensato che non sarebbe stato male accompagnarlo. E’ da tempo che non ci torno più. Finita l’adolescenza sono stato attratto da altre mete.
Quando ho offerto a Fede di ospitarlo, l’ho visto trasalire impercettibilmente. Da quando il Prof. ci ha comunicato la sua decisione ho percepito il suo imbarazzo, nonostante io mi sia messo d’impegno perché gli fosse chiaro che non me l’ero presa. Ma forse è proprio questo mio riguardo che lo ha messo in tensione. A volte è la mancanza di naturalezza a fregarci. Ci ha messo un po’ più del dovuto per accettare la mia offerta: sì, grazie, mi piacerebbe molto. Si è accorto che ho notato la cosa e, con un po’ di esitazione mi ha detto: “Mi dispiace per il concorso. Cioè: sono contento e spero di vincerlo, ma è ovvio che ci speravi anche tu. Non avrei mai voluto trovarmi a competere proprio con te per questa candidatura.”
Ho cercato di fargli percepire che ero sinceramente disposto a riderci sopra, mentre gli rispondevo: “Sono gli inconvenienti dell’amicizia”, ma lui è rimasto interdetto dalle mie parole.
“…cioè?” ha abbozzato.
“Cioè che quando quel bastardo del tuo amico ti soffia il posto non ti puoi neanche incazzare” gli ho risposto, continuando a sorridere
“Bastardo?!?” Fede ha finto di adombrarsi, ma ho intravisto nella sua espressione il timore che io stessi dicendo sul serio.
“Dai, sto scherzando!” Era vero. Volevo veramente scherzarci sopra.
“E quindi io sarei un bastardo?”
“Dai, ti ho detto che scherzavo…”
A quel punto lui si è interrotto. Si è stiracchiato allontanandosi dalla scrivania dello studio che condividiamo in facoltà. Si è appoggiato al muro con le spalle. Si è accomodato, a braccia conserte.
“Beh?”
“Niente, stavo pensando che hai ragione”
“Cioè che è vero che sei un bastardo?”
Non ha raccolto.
“No, hai ragione sull’amicizia. Sugli inconvenienti dell’amicizia.”
“…”
“… sì, perché finisce che uno, con la scusa che è tuo amico, ti dà del bastardo e tu non ti puoi neanche incazzare…”
Ho incassato la stoccata. “Touché” ho risposto.
“Touché ‘sto cazzo” ha esclamato lui, ma mi ha guardato in un modo che mi ha fatto capire che era tutto ok.

Fede ha accettato la mia proposta. E adesso siamo qua. A Graffiano di Povo, Trento. Questo villaggio oggi è una zona residenziale di collina, ambita dai benestanti di città che vogliono abitare nel verde a pochi minuti dal centro. Quando ci venivo da bambino era solo una manciata di frazioni sparse sui declivi, fra campagne selvatiche e vigneti. Ho promesso ai miei zii che ceneremo da loro. Nell’attesa facciamo una passeggiata in mezzo alle campagne, lungo il viottolo che arriva fino alla Torre e poi al bosco.
Il sole sta scendendo sulle montagne e una luce dorata piove sul paesaggio, attenuata dal passaggio di grandi nuvole, che si stanno addensando sopra la cima del Chegul. Soffia un vento tiepido. Forse sta piovendo, da qualche parte. Forse questa sera pioverà anche qui.
“Sono bei posti” dice Fede, facendo correre lo sguardo sul verde che ci circonda.
“Sì. E’ bello qui”. Un’ondata di ricordi mi assale. “Da bambino ci venivo in vacanza. Tutte le estati. E a Natale. E a Pasqua. Mi ricordo che la casa dei nonni mi sembrava grandissima…”
“Beh, piccola non è…” commenta Fede. Lui vive in un monolocale invaso dai libri, dagli scatoloni che usa come armadi e pure dalla sua bicicletta. La vecchia casa della mia famiglia paterna in confronto è enorme. Ha due piani. E in più ci sono le stanze al piano terra, un’enorme cucina e i locali di servizio.
“Mi faceva impressione che la casa fosse così grande. Che ci fossero delle stanze apposta per noi. Delle stanze che quando noi non c’eravamo restavano vuote. I letti erano altissimi, con dei piumini gonfi e morbidissimi ricoperti di raso. Nonostante ci fosse il riscaldamento, in inverno, quando andavamo a dormire, il raso era così freddo che a toccarlo sembrava bagnato.”
“Passavi il tempo con i tuoi cugini? Con i figli degli zii che ci hanno invitato a cena?”
“Sì. Bicio, Monica e Fab, che sono i figli più piccoli di mia zia Iris, la sorella di mia madre. Ho altri due cugini, molto più grandi. Sono gemelli, un maschio e una femmina. Dopo aver avuto loro non ne erano venuti altri, per tanti anni, poi gli zii si sono rifatti…”
Mi viene da sorridere al pensiero di noi quattro da ragazzini. Il mio sorriso contagia Fede.
“Credevamo di essere degli agenti segreti. Era il nostro gioco preferito. Non ricordo di aver giocato ad altro, con loro. Il nostro nome in codice era un numero, come avevamo imparato dai film di James Bond. Bicio, che era il più grande, era l’agente 007, io ero 006, Monica 005. Fab non aveva il numero. Era troppo piccola. Lei si chiamava agente Bubble Gum. Nelle missioni pericolose Bicio ci diceva sempre di proteggerla.”
Mi invade una tenerezza struggente.
Ficco le mani in tasca. Forse è un gesto di riserbo.
Fede non commenta. La ghiaia bianca del sentiero scricchiola sotto le nostre suole.
“Avevamo un rifugio segreto. Giù alla cava” faccio segno verso un punto dietro le nostre spalle. “Magari domani andiamo a vedere cosa c’è adesso. Era lì che progettavamo le nostre missioni. Risolvevamo dei misteri…”
Fede ridacchia.
“Si ha una fantasia, quando si è bambini… A ogni caso davamo un nome. Dei nomi pieni di enfasi, da romanzo. In questo avevamo avuto una buona scuola. Mia zia Iris, la loro madre, è sempre stata un’inventrice di storie. Soprattutto di storie paurose. Si divertiva a terrorizzare le sorelle più piccole e poi noi nipoti con i suoi racconti. Credo che venisse da lei tutta quella fantasia nel dare i titoli alle nostre avventure. Roba del tipo Il mistero della pietra luccicante, perché avevamo trovato un sasso che brillava. Avevamo imbastito tutta una storia. Che il sasso brillava in quel modo perché conteneva polvere di diamanti.”
“Che pirli” commenta Fede, divertito.
“Oppure L’enigma del cerchio di ferro. Era un anello metallico tutto arrugginito che avevamo trovato per strada. Nella nostra invenzione faceva parte di un’arma potentissima, ovviamente nemica, che senza quel pezzo non poteva funzionare. La avevamo anche disegnata. Chissà che fine ha fatto quel disegno. E la nostra missione consisteva nel nascondere l’anello di ferro, in modo che il nemico non potesse trovarlo.”
“Ma il nemico chi era?”
“Sai che non lo so?!? Era il nemico e basta. Qualcuno che avrebbe utilizzato quell’arma per uccidere un sacco di persone.”
Fede sembra soppesare le mie parole, prima di ribattere: “In effetti… chiunque voglia utilizzare un’arma per uccidere un sacco di persone è un nemico.”
“Già. Pensavamo più o meno questo, anche se il nostro era un istinto, più che un ragionamento.”
Continuiamo a camminare. Le folate di vento che spirano a tratti smuovono l’erba alta che cresce a ciuffi sul ciglio della strada. Le nubi si stanno allontanando. Il cielo del tramonto è terso, color cobalto, sfumato di arancio. Non pioverà.
“Un’altra volta ci eravamo messi in testa che bisognava scavare un passaggio segreto nel giardino della casa dei Manci. I conti Manci. La loro casa è quella all’inizio della frazione. Ci siamo passati davanti prima.”
“Conti? Conti nel senso di … conti?”
“Sì, conti conti. Sai che anche noi Gestein saremmo conti…”
“Davvero?!? Cazzo! Mi toccherà chiamarti conte Witt!”
“Figurati. A nessuno di noi è mai importato nulla del titolo nobiliare. Pensa che la prima e l’ultima volta che se ne è parlato in famiglia è stato quando ero un bambino. Proprio quella volta che io e gli altri agenti segreti eravamo in fissa con il passaggio segreto. Mio cugino Bicio se ne era uscito con questa faccenda che sia loro che noi eravamo dei nobili. E’ sempre stato un tipo… epico. La cosa lo intrigava un sacco. Del resto aveva otto anni. E anche io ero piuttosto preso. Morale: chiedo al nonno cosa vuol dire essere conti e cosa ce ne deriva.”
“…”
“Prima mi chiede da dove viene fuori quella storia del titolo nobiliare. Glielo spiego e lui, burbero, fa: To còsino l’è ‘n spiazarol! Spiazarol in dialetto vuol dire monello, birbante, uno che ne combina sempre una. Si riferiva a Bicio. Che in realtà si chiama Fabrizio. E poi: no sté a far monade! Non fate cazzate. Poi mi spiega, te lo dico come me lo ha detto lui allora, che i conti sono quelli che hanno un titolo nobiliare, una cosa che viene dal passato, da quando non esistevano le nazioni, e i re, i duchi, i conti e i marchesi, con la scusa della nobiltà, comandavano sul popolo. Mi dice che, per fortuna, al giorno d’oggi i titoli nobiliari non servono a niente, perché non ci sono più i re, ma le nazioni democratiche. Cosa vuol dire nazioni democratiche?, gli domando. Vuol dire che governa il popolo, eleggendo dei rappresentanti. Ed è meglio così?, gli chiedo. Diciamo che è più probabile che sia meglio, fa lui. E io: perché? E lui: perché quand’ che ghè i re, je lori che i diss che je rè e i fa quel che i vol. Quand’ che ghè la democrazia se il popolo no l’è content de quei che i lo rapresenta, no i li vota pu e i li bate zo! Hai capito? E’ in dialetto…”
“Sì, sì. Capito. Quando ci sono i re, sono loro a proclamarsi re, e fanno quello che vogliono. Invece, quando c’è la democrazia, se il popolo non è contento di quelli che lo rappresentano non li vota più e li butta giù. Un grande, tuo nonno!”
“Sì, era un mito. Anche se chi ci rappresenta spesso non rende un buon servizio alla democrazia…”
“In effetti.”
Mi accorgo che ci siamo allontanati parecchio e che comincia a imbrunire. “A furia di chiacchierare si sta facendo tardi. Torniamo indietro?” domando a Fede. Lui gira su se stesso, per invertire il senso di marcia. Le anse della stradina che ci ha portati fin qui sono di un bianco fluorescente nel crepuscolo. I prati sono blu.
“E come si chiama ‘sto mito di nonno conte democratico?”
“Bella domanda!”
Fede mi guarda interrogativo: “Cioè?”
“Witt!”
“Come te!”
“E come mio padre.”
“Ma non è al Sud che i primi figli maschi devono portare il nome del nonno, e del bisnonno, e del trisavolo?!?”
“Ma la mia non è mica una famiglia che segue le abitudini comuni. I Genstein se ne fregano da generazione dei titoli nobiliari, ma questa cosa del nome di famiglia per mio nonno non si toccava. Tutti i primi figli maschi della nostra famiglia dovevano chiamarsi come il loro padre. Quindi un’infilata di Witt, di padre in figlio. Anche io, se avessi un figlio maschio, se volessi rispettare la tradizione, dovrei chiamarlo così. A questo sì che ci teneva, il nonno.”
“Tuo nonno… c’è ancora?” mi domanda Fede, esitante. Probabilmente immagina la risposta.
“No, è morto quando avevo dieci anni.”
“Peccato,” fa Fede “mi sarebbe piaciuto conoscerlo.”.
Considero mentalmente che domani voglio andare a metter due fiori sulla sua tomba e su quella della nonna Rosa. Non ho trasporto verso tutto ciò che ha a che fare con i riti funebri, ma il cimitero di questo paesino è allegro e fiorito come un orto di montagna. Domani ci andrò. Per chiacchierare un po’ con loro, come fa la zia Iris. Le cronache familiari riportano che la Iris, quando va al cimitero, parla con i cari estinti. Ci litiga. Chiede loro pareri. Mi ha detto il papà di non andare più al cimitero con ‘sto freddo. La mamma oggi era arrabbiata, perché è una settimana che non mi faccio vedere. Sono stata giù soltanto un po’, perché il papà era stanco e non aveva voglia di chiacchierare. Tutto ciò è perfettamente in linea con il suo personaggio, del resto.
“E quindi, tuo nonno ci teneva a questa cosa del nome di famiglia?”
“Eccome! A mio padre, invece, non è mai importato più di tanto. Un giorno, mentre parlavamo di questa cosa, eravamo a tavola, ero ancora un bambino, e c’era anche il nonno, mio padre se ne esce dicendo che per quanto lo riguarda i suoi nipotini potranno chiamarsi come vorranno i loro genitori. Il nonno e mio padre si mettono a discutere. Mio padre, dopo un po’ che litigano, gli dice che è inutile che lui, il nonno, faccia tanto l’illuminato e poi continui a intestardirsi su una scemenza come i nomi di famiglia. Quando mio padre dice così, vedo mio nonno arrabbiarsi tantissimo. La faccia gli diventa scura, gli occhi, li aveva blu, un po’ come i miei, gli diventano grigi. Succedeva sempre questa cosa del colore degli occhi quando si incazzava. Mio padre si alza e dice: scusa, papà, ma io la chiudo qui; tanto con te è inutile parlare. E poi se ne va. Mio nonno rimane lì, immobile. Io capisco che avergli detto quella parola, scemenza, è qualcosa di brutto. So, sento, che io non potrei usarla nei confronti di mio padre, perciò percepisco che mio padre ha fatto qualcosa di sbagliato. Non mi era mai capitato prima di considerare sbagliata una cosa fatta da mio padre. Mio nonno mi guarda in un modo che sembra che ce l’abbia anche con me. E io non so cosa dire. A me, in quel momento, non dispiace affatto l’idea di chiamare mio figlio come vorrebbe mio nonno. Anzi, mi sembra una cosa normale. Penso anche alle parole di mio padre. Vorrei dire qualcosa al nonno. Ma non ci riesco. E allora faccio finta di niente. Mi affaccio alla finestra e aspetto. Dopo un po’ il nonno mi chiama. Non vai a giocare con i tuoi cugini?, mi chiede, come se non fosse successo niente. Penso che quella sia stata la prima volta in cui mi sono trovato nella condizione di dover prendere una posizione mia. Ho ripensato tante volte a quell’episodio. Ora so descrivere quello che ho provato. Mi sono sentito vigliacco, perché non ho detto ciò che pensavo.”
“Eri un bambino… da una parte c’era un nonno mitico, dall’altra tuo padre…”
“Sì, è così, ma ogni volta che mi trovo a scegliere fra franchezza e ipocrisia, ripenso a questo episodio.”
“E cosa scegli?”
“Il più delle volte la franchezza. Ma non sempre… se devo essere… franco.”
Proseguiamo. Da lontano si sente abbaiare un cane.
Dopo un po’ siamo di nuovo in mezzo al borgo, vecchio di quasi otto secoli.
“Andiamo a vedere casa Manci?” mi chiede Fede.
Annuisco e ci dirigiamo verso l’antico lavatoio, che si intravede dietro una curva, prima dell’incrocio con la provinciale.
“Ecco qua” dico, indicando la cancellata in ferro che interrompe la recinzione. Dentro c’è un piccolo parco ben tenuto, i faretti segnalano i camminamenti e, in fondo, tra gli alberi, si vede la facciata elegante, dipinta di un giallo tenue. Al piano terra le finestre sono illuminate. Fede curiosa attraverso il cancello, poi viene a sedersi vicino a me, sotto la tettoia del lavatoio, sul sedile che corre su due lati. Il neon di un lampione ronza sommessamente. L’acqua della fontana scorre trasparente, gorgogliando in controluce. Ormai è buio e la vasca sembra colma di inchiostro nero, dentro si riflettono tremuli i bagliori che accendono la sera.
“Non mi hai raccontato com’è andata a finire con il passaggio segreto di casa Manci” dice Fede.
Non c’è in giro nessuno, ma mi sembra di vedermi, bambino, con gli altri tre, a scorrazzare qui intorno, senza consapevolezza del fatto che il tempo sarebbe passato, senza neanche poter immaginare quello che ci sarebbe successo dopo. Allora non avevamo neanche la cognizione della parola dopo. Dopo significava tra cinque minuti, tra un’ora, al massimo domani. In alternativa a adesso e dopo esisteva solo quando sarò grande. Ma quella era un’idea talmente indeterminata che non ce ne curavamo. Non sembrava riguardarci veramente. Non ci faceva nessuna paura.
“Allora? Questo passaggio segreto?” insiste Fede.
“Questa casa ci affascinava, perché avevamo ascoltato i grandi mentre rievocavano la storia del conte Manci. Il conte era coetaneo di mio nonno, forse un po’ più giovane. Durante la guerra questa casa era una base segreta della Resistenza…”
Fede fa un fischio di stupore.
“Il conte era un partigiano, era un capo della Resistenza, e dentro casa aveva una radio che serviva ai partigiani per comunicare e per tenersi informati sull’avanzata degli alleati. Un giorno, dopo che una spia aveva fatto rapporto, il conte fu catturato dai tedeschi. Lo portarono a Bolzano, nella sede della Gestapo. Il conte, si chiamava Giannantonio, sapeva che lo avrebbero torturato, per costringerlo a fare i nomi degli altri partigiani e a svelare dove si nascondevano. E allora, piuttosto che far scoprire i suoi compagni, si è ucciso. Si è buttato dal terzo piano. A guerra finita ebbe una medaglia al valore. E’ considerato un eroe della Resistenza. Il nonno ne parlava con grande rispetto. Ripeteva sempre che anche ai Manci non importava nulla del titolo nobiliare. Mio nonno diceva che nella vita non sono i titoli che erediti a contare, ma l’onore che ti conquisti.”
“Anche tuo nonno è stato un partigiano?”
“Mio nonno ha aiutato i partigiani. Ma quando le truppe tedesche sono passate da queste parti, ritirandosi dopo la disfatta, ha rifocillato e riempito di provviste quelli che bussavano alla sua porta. Diceva che quei soldati erano solo dei ragazzi, che erano stati mandati in guerra da chi stava al potere. Come succedeva in tutti gli eserciti. E che quei ragazzi avrebbero potuto essere i suoi figli e che lui avrebbe sperato lo stesso per un figlio suo che si fosse trovato nella stessa situazione. La sua generosità è stata premiata, perché nessuno di loro ha mai torto un capello a qualcuno della famiglia.”
Mi rendo conto che sto monopolizzando la conversazione con i miei ricordi d’infanzia. “E tu? Storie di quando eri bambino? Com’erano i tuoi nonni? Ci sono ancora?” chiedo a Fede, per rimediare.
Lui fa un gesto con la mano, indefinito.
“La mia storia è molto diversa. Per certi versi affascinante. Ma molto diversa.” Avverto una nota di rammarico nella sua voce. “Un giorno ti racconterò. Ma adesso mi piace sentire di te. Vai avanti. Dimmi del passaggio segreto.”
Lo assecondo: “Ti puoi immaginare come ci avesse colpito la storia del conte. La cattura, la prigionia, il suicidio per salvare gli altri partigiani. Con gli altri della banda ci eravamo messi in testa che nella casa del conte bisognava costruire un passaggio segreto. Nei nostri giochi noi eravamo degli alleati del conte…”
“Come se il conte ci fosse ancora. Come se la casa fosse ancora una base clandestina…”
“E certo! Volevamo costruire il passaggio segreto, così, se fossimo stati scoperti, non ci avrebbero catturati. Non ci avrebbero fatti prigionieri. Non avremmo rischiato la tortura…”
“Giocavate a cambiare la storia…”
“Sì. L’hai detta giusta. Me ne sto rendendo conto ora, mentre ne stiamo parlando. Giocavamo proprio a cambiare la storia.”
“E il passaggio segreto?”
“Oh! Inscenammo perlustrazioni, calcoli, progetti di scavo. Secondo noi il passaggio doveva partire dal retro della casa e uscire sulla provinciale.” Gli indico l’incrocio che c’è alle spalle del lavatoio. “C’era una grata sulla massicciata di sassi che costeggia la provinciale. Sarà stato un punto di accesso a qualche conduttura, non saprei. Ma per noi quella era l’uscita del canale sotterraneo che avremmo scavato sotto casa Manci.”
Per un attimo il racconto diventa visione. Immagino l’ombra del conte sbucare dal passaggio segreto, con quelle di un paio di compagni, e incamminarsi nel buio, in salvo.
Poi la mente sterza di colpo e sono altrove. Alla cava. Il cielo è cristallino, di un azzurro impossibile. L’aria è ghiacciata. Un sole splendente fa scintillare la ghiaia e i cumuli di neve. Io e gli altri agenti segreti siamo riuniti in uno spiazzo, sopra un masso che ci congela il sedere attraverso i pantaloni imbottiti.
“Questa te la devo troppo raccontare!” sbotto.
“Vai! Racconta!”
“Un giorno eravamo alla cava, con gli altri tre agenti segreti. E Bicio ci stava consegnando i distintivi. Li avevo procurati io. Ero tutto orgoglioso. In realtà erano delle agendine. Le aveva regalate a mio padre un suo amico, che le stampava, perché lavorava in una tipografia. Delle agendine che si davano in omaggio con una rivista. Erano delle prove o degli scarti di produzione, non so. Io, appena le avevo viste in casa, me le ero accaparrate. Erano dei distintivi perfetti per la squadra degli agenti segreti! In quel periodo quel gioco era al centro dei miei pensieri. Anche quando ero a Milano ci fantasticavo sopra. Era come una specie di innamoramento. Insomma, siamo lì, che facciamo la messinscena della cerimonia di consegna dei distintivi, e Monica, che ancora non sapeva leggere, li guarda e fa: Cosa c’è scritto sotto il disegno del coniglietto? E io, tutto compunto: c’è scritto Playboy. Mi sono già informato. Ho chiesto a mio padre. E’ inglese. Si legge pleiboi. Play significa giocare e boy è come dire ragazzi. E mio cugino Bicio, con un tono da capo, fa: perfetto, agente 006, perfetto. Per aver procurato i distintivi alla squadra, ti nomino vice – comandante della squadra dei Playboy!”
Fede se la ride, buttando indietro la testa. Rido con lui. Poi mi decido.
“Andiamo! Sennò facciamo tardi.”
Mentre raggiungiamo la casa dei miei zii, continuiamo a chiacchierare. L’eco dei nostri passi e delle nostre parole nell’aria che si è fatta immobile crea l’illusione di muoversi in un interno ma alzando lo sguardo mi perdo nella volta stellata, che si inarca sconfinata sopra di noi. La visione dei volti di Bicio, Monica e Fab e di me, quando eravamo bambini, non mi abbandona. Sono immagini in primissimo piano. Vedo con nitidezza la pelle fresca, le guance arrossate, il luccichio degli occhi, la trama della stoffa dei giacconi, i punti soffici delle sciarpe fatte a maglia.
Suono il campanello. Vengono ad aprirci e un vortice rassicurante di chiarore, abbracci, voci, odore di fuoco a legna, profumi di cucina spinge tutto il resto verso margini di cui al momento non ho percezione.
Sono contento.
Contento di essere qui.
Ora.

Dal blog di Sabrina Minetti

foto di Sabrina Minetti.

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